di Giuseppe Manzo
Quando penso al giornalismo, lo dico con rispetto, non mi vengono in mente i conduttori dei Tg o i giornalisti che lavorano in redazione dietro un pc. Piuttosto, da sempre, penso a quelli che sono in “trincea” nelle terre del nostro paese, dove la delinquenza minaccia apertamente e vigliaccamente chi fa informazione, arrivando ad uccidere, come fecero la mafia con Peppino Impastato nel 1978 e Giuseppe Fava nel 1984 o la camorra con Giancarlo Siani nel 1985, giovani cronisti che diedero la vita in nome della verità. Come peraltro raccontano film imperdibili.
Ma ancor più, quando penso al giornalismo come scelta di vita, mi viene in mente la figura del corrispondente o inviato in zone di guerra, che mette in ballo la propria vita (e spesso anche quella del cameraman o fotografo che lo supporta) per raccontare i fatti che accadono in guerra, soprattutto ai civili indifesi, cercando di narrare e documentare quello che succede davvero, rispetto a quello che i comunicati delle fazioni in guerra cercano di far credere. Corrispondenti che operano in situazioni complesse dove i diritti civili sono soppressi, dove la vita vale poco, dove la quotidianità è sconvolta e si sopravvive giorno per giorno. Dove anche i giornalisti diventano nemici perché fanno arrivare ai giornali e alla tv quello che non conviene far sapere e vedere. Si pensi per esempio alla devastazione che da anni si vive in Siria.
E’ questa la storia che racconta un film da non perdere “A private war”, che rende onore alla corrispondente di guerra statunitense, Marie Colvin, che dal 1985 al 2012 raccontò la guerra in giro per il mondo, quella vera, perché sofferta dalla gente comune, per il giornale londinese Sunday Times, prima di trovare la morte, a 56 anni, assieme al fotografo francese Rémi Ochlik, sotto un bombardamento a Homs in Siria.
La giornalista Marie Colvin è stata una leggenda ed insieme una donna caparbia e fragile, come l’attrice Rosamund Pike narra con la sua mirabile interpretazione. Una cronista puntuale e un modello d’integrità professionale, che con il suo coraggio riuscì a raccontare al mondo vicende d’indescrivibile dolore di persone inermi che rischiavano il massacro, attirando l’attenzione dei media, dei politici e della gente comune, costringendo così i protagonisti della scena mondiale ad intervenire.
E’ avvenuto nelle guerre d’Africa e in Medio Oriente, nei conflitti in Cecenia, Kosovo e Sierra Leone, a Timor Est e nel Sudest asiatico, dove la giornalista rischiò più volte la vita pur di raccontare al mondo le sofferenze, il dolore e la fame di persone disarmate di ogni religione, razza e appartenenza politica, coinvolte loro malgrado in guerre devastanti. Le immagini che le tv mandano in onda della guerra non sarebbero comprensibili senza il racconto degli inviati e dei corrispondenti.
Nemmeno la perdita di un occhio nel 2001 in Sri Lanka, durante uno dei suoi reportage da una zona proibita ai giornalisti, riuscì a fermare Marie Colvin. Anzi portare nella carne e sul viso i segni indelebili di una delle tante inutili guerre del mondo le diede maggiore consapevolezza e coraggio.
“Il mio lavoro è far capire cosa succede quando un essere umano è costretto a vivere in condizioni insopportabili. Queste persone non hanno voce. Se un giornalista ha anche una sola possibilità di salvarle, deve farlo” sosteneva Marie Colvin.
Tutto questo ci racconta questo splendido e utile film intitolato “A private war”, un ritratto ben riuscito di una donna determinata, che ci porta dentro la vita di una persona che ha rischiato ogni giorno per anni la morte, con un solo obiettivo: informare chi sta a casa, davanti al giornale o alla tv, e permettergli di capire dov’è la verità nei tanti sanguinosi conflitti che rendono insicuro questo mondo.
Com’è facile immaginare, la giornalista Marie Colvin fu più volte premiata per il suo coraggio e per le sue cronache da teatri impossibili di guerra, ottenendo importanti riconoscimenti e offerte professionali lusinghiere che non fermarono la sua voglia di ripartire dopo aver fiutato i nuovi venti di guerra, quasi si sentisse a disagio a vivere la tranquilla vita borghese che la aspettava a Londra alla fine di ogni incarico.
L’attrice Rosamund Pike mette tutta se stessa e interpreta con passione e in modo efficace il difficile ruolo di questa donna forte, che ancora in vita era già diventata un mito e un esempio per i giornalisti di tutto il mondo, fino al momento dell’estremo sacrificio. Epilogo triste che il film annuncia fin dall’inizio, quasi la morte in zona di guerra fosse un destino già deciso per Marie Colvin.
In un periodo in cui la professione di giornalista viene spesso vissuta stancamente, come un impiego qualunque, svolta con opportunismo, senza passione e senza avvertire il valore della missione, questo film giunge a proposito a raccontare invece l’impegno di una giornalista vissuto con sacrificio, passione e abnegazione, al servizio della gente comune e in nome della verità.